CAMMINO LA TERRA DI MARCA. La fragilità della terra, la fragilità delle persone. Da Leopardi a D’Avenia

Attività fisica, Biodiversità
Adolfo Leoni
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Fragilità. Il tema delle Parole della Montagna 2017Da Smerillo, ancora un tema forte.

Fragili le montagne, fragili le persone. Fragile la vita dove tutto può accadere.

Lo sapevano gli Uomini freddi dei racconti di Mauro Corona. Venne la valanga, più cattiva di sempre, portò con sé la morte di oltre cento persone. Da secoli non accadeva. Accadde in quel secolo. Una tragedia. I sopravvissuti ne presero atto. Cantarono di sera i nomi degli scomparsi perché «gli uomini non sono mai disgiunti gli uni dagli altri… né quelli vivi, né quelli morti… né quelli che verranno tra secoli». Impararono una cosa nuova. E costruirono più in basso, facendo memoria per i posteri. «Tutti i popoli del mondo hanno trovato qualcosa di pronto, tracciato, agevolato da altri vissuti prima». Un legame che non vince la fragilità. Ma l’attenua e l’accompagna. La riconosce.

«Ed io che sono?» si chiedeva Giacomo Leopardi magari guardando i Monti Azzurri. «Ove tende questo vagar mio breve?» s’interrogava il Pastore errante nell’Asia.

Parole risuonate il 17 marzo nella Sala Rossini dell’Hotel Astoria di Fermo (organizzazione Di Villa in Villa): altro momento di riflessione sulla fragilità della natura e delle genti. La montagna nostra che ha ruggito, il suo ventre che è esploso, il terremoto che ha ucciso, distrutto, abbattuto. I borghi abbandonati, le macerie, l’urlo che ha squassato i monti leggendari e li ha dilaniati. «Ed io che sono?», ha ripetuto chi leggeva il poeta. Che n’è della mia vita e dell’opera degli uomini?

«Prova a cantare il mondo mutilato – scriveva Adam Zagajewski -. Ricorda le lunghe giornate di giugno e le fragole, le gocce di vino rosé. Le ortiche che metodiche ricoprivano le case abbandonate da chi ne fu cacciato. Devi cantare il mondo mutilato».

Occorre un  motivo per ricostruire e un senso per tornare a vivere nei luoghi del sisma. Non basteranno le pur doverose casette, tantomeno le visite dei potenti, ormai diradatesi con lo spegnimento dei riflettori mediatici.

Occorre un grande amore: un amore alla propria terra, alla propria comunità, alle proprie fragilità per riprendere una paziente rinascita. Alessandro D’Avenia ha scritto in questi mesi duri, inconsapevolmente dei dolori marchigiani, L’arte della fragilità.

Ruscello dei Sibillini (foto di Alberto Mandozzi)

«L’arte di rinascere – ha proposto il giovane professore siciliano – è allora l’arte di amare, perché solo chi ama fa qualcosa di bello al mondo. Solo l’amore ci consente di affrontare lo scandalo della fragilità del nostro essere, un amore che non dovrebbe venire mai meno nonostante le nostre insufficienze…».

«Solo chi ha consuetudine con l’infinito – dice ancora D’Avenia – conosce la propria finitezza, accetta la morte e non la nasconde, solo chi accetta la morte sa vivere… solo chi sa contare i propri giorni diventa, di stagione in stagione, capace di abitare la vita con la leggerezza degli innamorati, sempre pronti a far la cosa bella». La vita si fa bella e terribile quando lotta per vivere di più. Diventa piena. «O la vita tornerà ad essere cosa viva e non morta – si legge nell’Appendice alle Operette Morali di Leopardi – o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto».