CAMMINO LA TERRA DI MARCA. Ceresola e San Martino al Faggio. Borghi da sogno

Attività fisica, Biodiversità, Convivialità, Storia, Tradizione
Adolfo Leoni
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Ditemi un pittore o un architetto più bravo del Padreterno. Non ce n’è. La scena è stupenda: montagne bianche, valli che risalgono i corsi dei tre fiumi, gradazioni di verde dall’ancora vivo allo spento dell’autunno già inverno. Paesi accovacciati. C’è sole. È freddo. L’aria pungente.

San Martino al Faggio è un borgo. Sembra una serie di case per la strada di Smerillo. Eppure, da una via stretta si arriva in una piazzetta. Campeggia la chiesa di San Vincenzo Ferreri, campanile romanico. Una scalinata dinanzi. Il portone restaurato da poco, opera di Pierpaolo Bracci. Il terremoto ha dato problemi. Un nastro sbarra l’edificio.

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Sotto la chiesa, l’amministrazione del sindaco Vallesi ha realizzato un auditorium accogliente. Cento persone nell’ultima presentazione di libri. Ora è chiuso, in attesa di interventi ai piani superiori.

Una vecchia carica legna. I comignoli fumano. Si respira aria di focolare. Qualche donna più giovane parla il romeno. A distanza si scorgono pecore e aironi bianchi.

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Ci vorrebbe un artista. «Nessuno meglio di voi artisti, – scrisse Giovanni Paolo II – geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani».

Il bello è una vibrazione del cuore, eco del mistero della creazione.

Mi spingo a Ceresola, qualche chilometro più in alto. Il Comune di Smerillo ha costruito sei-sette appartamenti, belli, non grandi, al sole, modulari, ognuno la sua indipendenza.

«Occorrerebbe che qualche giovane famiglia si stabilisse qui, a due passi dal centro industriale di Comunanza che dà lavoro, eppure nella tranquillità di questo luogo». È l’obiettivo degli amministratori. Giovani famiglie italiane che amano silenzio e pace, gente capace di ricreare comunità e vita sociale. Più difficile sarebbe con gli stranieri, portati a una privacy blindata.

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Ma la scoperta vera è quella di una sorta di teatro un po’ più a monte. Si sale per una stradina stretta, un’auto alla volta. E si entra

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in un rettangolo dove il palcoscenico è una specie di fontana allungata, dove le pietre conservano conchiglie, dove strane erbe sopravvivono tra gli interstizi dei muri, dove il terreno degrada sino alle abitazioni ad un piano. Sulla sinistra un palazzetto. È del Comune. Lo stanno restaurando. Gli operai oggi non ci sono. Entro. Mi sembra di penetrare un’altra dimensione, sogno e realtà, voglia di nuovo ed antico. Stanze piccole, finestre sui tre lati: vallata del Tenna, Sibillini, Gran Sasso. Tutto parla di una civiltà diversa. Povera, ma di «quell’onesta povertà» che per altri versi citava il neo arcivescovo Pennacchio. Eppure, con la voglia di vivere e costruire.

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Per contrasto penso alla Decima Duinese di Rilke, riletto attraverso Ceronetti: «…l’organo sessuale del Denaro che insemina, genera e fa germogliare tutto nella Città del Soffrire tra le baracche, le miserie, le banche. L’osceno demone Geld è in erezione perpetua, dalle azioni minerarie del carbone ai trasferimenti elettronici, e il sangue versato nella Grande Guerra è da lui imposto come tributo sacrificale». Lì, la luce non penetra mai. Vince il buio. L’egoismo.

Qui invece tutto è luce. O potrebbe esserlo.