CAMMINO LA TERRA DI MARCA. Pace e silenzio intorno alla Basilica Imperiale di Santa Croce

Ospitalità, Religiosità, Storia
Adolfo Leoni
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Non si può visitare la Basilica Imperiale di Santa Croce al Chienti (Casette d’Ete) senza percorrere un tratto di strada a piedi. Lo copro, allora, con un gruppo di famiglie, dall’ultima curva prima della chiesa. Mi hanno chiesto di raccontare la leggenda di Imelda e Lotario e di ricostruire la storia dei luoghi. Lo faccio volentieri. Abbiamo l’edificio sacro di fronte e i campi ai tre lati. Qui sorgeva il primo cenobio benedettino, poi la cittadella monastica, questo luogo fu protetto dall’Impero perché uno dei punti della difesa costiera e dei fiumi (Chienti e Tenna) e ambito dal vescovo di Fermo in cerca di danari provenienti dal rivatico (la tassa sugli attracchi e la navigazione). Dico del vescovo Teodosio e dell’imperatore Carlo il Grosso, nipote di Carlo Magno. Narro del cavaliere e della sua amata, dei disperati e dei convertiti. Parlo della conceria e della calzoleria, delle scarpe fornite ai soldati che scendevano lungo l’Adriatico. Ma c’è qualcosa che mi commuove e commuove il gruppo.

santa croce chiesa

È la notte tra il primo e due maggio del 2015. Ho un impegno con me stesso. Lascio l’auto dinanzi al campo sportivo di Casette d’Ete. Mi incammino verso la Basilica. Nessuno in giro. Qualche cane sta latrando. Spira un vento gentile. All’imbocco delle vie per le abitazioni, lungo la strada bianca principale, gli agricoltori hanno posto piccole croci realizzate con canne di fiume. Poche ore prima i monaci benedettini di Norcia hanno celebrato una messa in latino dinanzi ad una folla enorme, specie di giovani. Prima della celebrazione c’è stata una sorta di processione.

Ora invece – le 24 sono scoccate – è il silenzio a prevalere. Ed è questo che dovevo appurare. Le anime dei monaci, dei conversi, dei famigli non piangono più. Dalla terra non si solleva al cielo il lamento di chi ha creduto che la Basilica non potesse risorgere.

Invece, la Basilica è risorta. Ma qualcosa mancava. Mancava un rito, parole antiche, paramenti d’altri tempi, una lingua comune (che non è l’inglese). E tutto questo è accaduto. Prima il rifacimento edilizio. La Chiesa abbaziale è risorta. Poi, la nuova presenza benedettina, quella dell’origine, il filo rosso che lega un luogo e una fede.

Santa Croce monaci

Nei primi anni Novanta dell’altro secolo, quando impegnammo battaglia per la rinascita di Santa Croce, portai a visitare i ruderi al grandissimo Léo Moulin, belga, storico, sociologo, agnostico e già massone. Rimase sbalordito. Invitò a intensificare gli sforzi.

L’altro giorno ci ho ripensato, legando il Moulin amante delle Cattedrali a Ken Follet, il cui ultimo libro La colonna di fuoco, è l’ideale prosecuzione dei Pilastri della Terra e di Mondo senza fine.

Follet che si definisce «ateo non praticante», «va in chiesa con piacere, – racconta Silvia Stucchi – specialmente ai vespri; ammette di continuare a non credere in Dio, ma di trovare importanti non solo l’architettura e la musica sacra, ma anche le parole della Bibbia di Re Giacomo, e, soprattutto, il senso di condividere qualcosa con chi gli sta accanto». Nel volumetto Bad Faith – Cattiva fede, uscito la scorsa estate, Follet parla di sé e conclude: «Quanto tempo ci occorre, spesso, per capire le verità più semplici».