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«L’ho detto. L’ho insegnato. Lo credo». La leggenda nera ripete ancora queste parole aguzze. Le pronunciò, sul rogo dell’Inquisizione, Francesco Stabili. La pira ardeva dinanzi alla chiesa di Santa Croce a Firenze. Colui che venne chiamato Cecco d’Ascoli le urlò al popolo riunito. Si dice anche che l’autore dell’Acerba non morisse tra le fiamme, che, sì, il suo corpo si consumasse a stento, ma che la sua anima trattata ingiustamente continuasse a vagare per i Monti sibillini, dove l’eco di quelle parole può essere ascoltata nelle sere di vento all’imbocco dell’Infernaccio, in terra di Montefortino.
Come le si udiva nella torre di Amandola, dove fu rinchiuso dopo la cattura.
Uno sfogo, orgoglioso, il suo, contro quell’abate, o forse quel priore, che comandava il monastero-seminario di San Leonardo, e che tanta parte ebbe nella condanna del medico filosofo astrologo ascolano, nemico acerrimo di Dante. Acerba contro Commedia.
Lì, Cecco, in quel luogo nascosto si era rifugiato.
Era l’estate del 1297. Non oblato, non converso, non monaco.
Non immune, dunque. Nessuna protezione particolare. Raggiungibile dunque dalla legge di chi fa la legge.
La causa di condanna fu per «de maleficiis commissis in personam». Malefici ai danni di un tal Brocardino o Moscardino. C’è chi racconta però una storia diversa. Quella di un’invidia mai sopita da parte del Cancelliere frà Raimondo vescovo di Aversa, alla corte del Duca di Calabria, primogenito di Roberto D’Angiò.
Frà Raimondo ebbe gioco facile dopo un responso di Cecco su Giovanna, figlia impudica del Duca, e sulla prossima discesa in Italia dell’imperatore Ludovico il Bavaro.
Quell’invidia, quei responsi furono alimento per la pira.
E, forse, quelle parole riecheggiano anche ai bordi degli Occhi di serpente, intorno a quel del lago di Pilato dove una stele latino-volgare fece parlare di Cecco.
Ma non le udremo, le parole, non udremo l’imprecazione superba nei giorni del grande via vai. Le udremo di notte, quando il Gran Gendarme vigila solitario e taglia le correnti impetuose.
O in quel 21 di giugno, giorno di solstizio ed evocazioni.
Evocazioni che ancora oggi si compiono, tra un salmodiare vergognoso di strani tipi risalenti da Foce o discendenti dal Vettore.
Il libro del comando, Cecco, la dominazione degli spiriti della natura… Un tutt’uno che lega magia nera a magia bianca, negromanzia a esoterismo. L’antico sogno, la pretesa di dominare quella piccola palla d’infinito che è la nostra terra, di possederne i segreti, come se la forza vitale in essa sottesa, quel soffio divino degli inizi, potesse appartenerci.
Non era Pilato il nome secolare dello specchio d’acqua.
Era Lago dei negromanti sino al 1300.
Poi tanto cambiò. Tutto cambiò.
In quegli anni, Cecco s’aggirava per valli e cime.
Dicono avesse studiato nel monastero ascolano di Santa Croce ad templum, «il centro propulsore dell’esoterismo templare».
Templari, ancora loro. Leggenda nera. Eppure…
Il “Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo dà gloriam” era inciso su portali e lunette di antiche case di Montemonaco.
Ora qui, noi, oggi, ascoltando il vento e il linguaggio delle faggete, ascolteremo ancora racconti.
Scorgeremo anime di corpi che questo sentiero hanno percorso.
Udremo non udendo le loro invocazioni.
Ed avremo pietà. In primo luogo… di noi stessi.