
In questo articolo parliamo di:
Verso la fine di una giornata di ottobre, una dozzina di uomini si fermò al margine di una radura all’interno di una foresta, una come tante, che si trovava nei pressi di un fiume, uno come tanti.
Pioveva dal mattino e quella gente era intirizzita e affamata.
Era quella la loro meta?
Colui che sembrava la guida si guardò in giro, lasciò cadere il sacco, salì a fatica su una collinetta scivolosa, scrutò intorno.
Campi, alberi, selvaggina, acqua… ce n’erano.
Il Cappellone di Santa Vittoria in Matenano, ultimo residuo del monastero farfense
Chiamò i «fratelli» e disse: «Credo sia questo il luogo annunciato. E credo di dover ringraziare Iddio di averci permesso di arrivare sani e salvi».
Poi, s’inginocchiarono nel fango gelato e pregarono. E i loro inni si alzarono più alti delle brume della sera.
In quel luogo dove s’istallarono per la notte, rimasero per sempre. Erano monaci. Erano benedettini.
La foresta aveva un nome, anzi, mille ne aveva.
Anche il fiume aveva un nome, anzi mille.
Perché tutto ciò accadde, identico, lungo la Loira, la Vistola, il Boyne, il Tweed, il Pò. E lungo il Tenna, in Terra di Marca.
Identico.
L’Europa fu coperta da migliaia di costruzioni bianche slanciate verso il cielo. Unica la regola, quella del padre Benedetto.
Capitò qualcosa di simile anche da noi.
Finiva l’anno Ottocento. L’impero romano era solo un ricordo, le aquile a Bisanzio, le strade devastate, gli acquedotti distrutti, i campi incolti, bruciati, saccheggiati. Né legge né ordine. Il comando al più forte. Tempo di ferro, tempo di sangue.
Uomini pii abitavano il monastero di Farfa. Dediti alla preghiera e al lavoro. Un unicum, di totalmente nuovo. Ma a chi poteva dar fastidio quella comunità? Ci sono domande che non andrebbero poste, perché non trovano risposta. Il male a volte prende il sopravvento nei cuori degli uomini, così, all’improvviso. Come se permanesse dentro di noi, pronto ad erompere
Per anni quei monaci avevano respinto gli assalti Saraceni.
Una notte accadde che il monastero fosse ghermito dalle fiamme. La guardia suonò furiosamente la campana del pericolo imminente.
«I saraceni stanno dando l’assalto, sono quasi dentro le mura, hanno già bruciato i laboratori… difendiamoci, fuggiamo, difendetevi, fuggite».
Ma quella volta i Saraceni non c’entravano proprio. Quella volta c’entrarono i cristiani, ladri… cristiani. Gente del luogo, insomma. Il male che aleggia… il male che erompe.
Le fiamme arsero Farfa.
Fu allora che l’Abate prese la decisione di abbandonare il monastero.
Pietro I radunò i suoi monaci, raccolse il tesoro, divise gli uni e l’altro in tre parti. Benedì tutti e spedì un gruppo a Roma e un altro a Rieti. Il terzo, di cui si mise a capo e con tutti i documenti i pesi e le misure, andò verso i monti fatati.
Correva l’anno 898 quando le genti del Piceno videro arrivare un gruppo di Benedettini. Proveniva dalla Sabina. Erano Farfensi. Li guidava il loro Abate.
Raggiunsero il Matenano, una rocca naturale che s’ergeva sopra valli boscose, ricche di animali e di acque.
Sulla sommità del Matenano depositarono più tardi le spoglie della loro santa, Vittoria. Dal Matenano iniziarono una rivoluzione religiosa, civile, sociale, agricola giunta sino a noi.
Noi che, dopo mille illusioni, mille sogni tramutati in incubi, siamo tornati a cercare il senso delle cose, abbiamo ancora una bussola: quell’Ora Lege et labora, anche se inconsapevolmente, è il sangue circolato nelle nostre vene, lo stesso nostro respiro.