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Era vino annacquato. Una caraffa grande, con il beccuccio stretto. Poi c’era anche una bottiglia di vino sincero con accanto un’altra d’acqua sempre fresca. Due i bicchieri, poggiati su un vassoio d’argento dai manici grandi.
La credenza era ampia. Di legno. La porticina che l’apriva aveva arabeschi colorati: un pavone, una palma, un calice, un tralcio di vite. Profonda sessanta centimetri, andava a stringersi contro il muro.
Tre i ripiani. Quello centrale conteneva vino acqua bicchieri. Quello più sotto serviva per il ricovero del bastone da passeggio. Il più in alto restava vuoto.
La credenza era stata realizzata ad incasso su uno spigolo del piano terra più vicino alla scala che portava agli appartamenti nobili.
Non che fosse un gran palazzo. Era un “casino” estivo, dove la famiglia da secoli passava i mesi più caldi illudendosi che la campagna fosse più fresca del borgo poco distante.
Intorno crescevano grano, ulivi e viti inframezzate da gelsi. Le pareti odoravano di mughetto, e le poltrone e il divano di vimini erano circondati di lavanda.
Un giorno il piccolo Umberto era stato chiamato da suo padre Aristide. Lo studio era pieno di libri, il discorso breve. «Da decenni questa casa è luogo di ristoro e riparo per pellegrini e viandanti. A loro abbiamo sempre offerto da bere. Lo faceva mio nonno, lo ha fatto mio padre, lo faccio io, continuerai anche tu e la tua discendenza. Non dimenticare il nostro impegno».
Umberto vedeva gente arrivare dinanzi a casa. Bussavano, veniva loro aperto e steso un bicchiere. C’era chi, sorpreso dall’oscurità, restava per la notte accampandosi nel fienile. Andavano a Roma o a Loreto, o, addirittura, a Lucca per procedere verso Santiago de Compostela.
Umberto chiese alla balia. Ricciarda raccontò una storia che riguardava il capostipite della famiglia. Forse, Urialdo il nome. Non ricordava bene. Crociato, s’era perso nel deserto, rischiando di morire: pelle spaccata, cervello in poltiglia, sete inaudita. Fino a quando un «infedele l’aveva raccolto, fatto bere, curato, aiutato a vivere». Un gesto mai più dimenticato. Tornato, la casa di Urialdo aveva sempre acqua per i passanti.
La spider rossa frenò all’ultimo istante. Polvere. La casa andava giù. La bionda inglese aveva insistito per vedere l’abitazione di cui si favoleggiava. Gianni l’avrebbe data via per nulla. Non amava la campagna né gli animali. Preferiva sport e città.
Entrarono: sporco, rovine, passaggi di razziatori. Un disastro.
Ellen aveva sete. Fontane non ce n’era. Quando ci si metteva era veramente pesante. Ora voleva andarsene subito. Forse un Martini ghiacciato… Il bar più vicino era a sei chilometri.
Gianni faceva attenzione sulla scalinata dissestata. Ridiscendendo, lo colpì la credenza. Intatta. Aprì la porticina cigolante, trovò un bastone in basso e un vassoio d’argento a metà, con bottiglie d’acqua e di vino e di vino annacquato, e due bicchieri. Tutto pulito. Si stropicciò gli occhi, stese la mano, la ritirò, la ridistese. Prese la caraffa, se la portò alla guancia sinistra. Freschissima. Guardò il contenuto e bevve. E gli sembrò che la scalinata si ripopolasse. Genti diverse, abiti diversi su per i grandini, e in fondo, su tutti, alto e orgoglioso, un vecchio dagli occhi di fuoco, muscolatura da giovane, che teneva lo sguardo su di lui. Sette secoli di storia.
Non si potevano tradire.