Sulle tracce della nostra storia: Farfa. Vivendo con i monaci. Ripartendo da Santa Vittoria in Matenano. Diario di una esperienza

Ospitalità, Religiosità, Storia
Adolfo Leoni
In questo articolo parliamo di:

È una questione d’aggettivi, soprattutto, di sostantivi.

Si dice: Turismo farfense, Ospitalità farfense, Gastronomia farfense. Si organizza la Cena farfense e ci sarà anche un Gemellaggio…farfense. Questione d’aggettivi, appunto. Ma già è un passo avanti. Sino a dieci anni fa l’aggettivo era confinato giusto a Santa Vittoria in Matenano, dove esistono anche esercizi pubblici che si definiscono… farfensi. Ora s’è propagato un po’ in tutta la terra fermana. La moda è così, ci sono ondate e c’è chi sull’onda fa il surf.

Ma il sostantivo che c’entra?

C’entra perché la cena, il gemellaggio, il turismo, l’ospitalità, la gastronomia sono la conseguenza di un soggetto – vivo ancora oggi - che ne fu all’origine. I Farfensi: i monaci benedettini dell’abbazia di Farfa in provincia di Rieti a 50 chilometri da Roma furono la sorgente o, meglio ancora, i protagonisti, consapevoli o meno, del successivo sviluppo della Terra di Marca.

Nell’898 fuggirono dalla loro abbazia, difesa per sette anni dai Saraceni, attraversarono la Sabina, l’Umbria, scavalcarono i Monti Sibillini, e si trincerarono sul colle Matenano.

L’Ora et Labora (meglio sarebbe dire: Ora, Lege et labora) sconfisse la pratica (e la concezione) del lavoro inteso come schiavitù e attività da schiavi; l’enfiteusi e il laboritio (mezzadria), invece, fecero sì che gli abitanti del Matenano e oltre coltivassero i campi come piccoli padroncini. La futura micro impresa artigianale e industriale iniziava a metter radici.

Lo sviluppo economico del Fermano risale ai monaci di Farfa: una tesi che racconto da circa 30 anni.

È difficile veicolarla, difficile far comprendere che la molla religiosa (la spinta all’Infinito) possa determinare anche sviluppo economico-sociale.

Restano però tracce visibili: i Farfensi abitarono quest’area e vi operarono in lungo e in largo. La gente d’oggi però, immersa nella mentalità della divisione e pensando che la sfera religiosa abbia a che fare solo con un astratto cielo lontano, con un Dio che se c’è non c’entra con le cose della vita quotidiana, non cogliendo più l’efficacia di un soggetto la cui azione si origina da una spinta religiosa, comprendono e colgono meglio l’aggettivo (farfense), scordando invece il sostantivo (i Farfensi).

Nell’estate del 2015, insieme a Emanuele Luciani e Anastasia Nicu, ho camminato da Santa Vittoria in Matenano a Farfa circa 190 km, sull’intuibile tracciato compiuto dai monaci in fuga sul finire del IX secolo.

Ma prima ancora – estate del 2011 - i Farfensi li ho conosciuti vivendo qualche giorno con loro. Una scelta dettata dal desiderio di ridar contenuto a quel farfense aggettivo, riscoprendo i Farfensi sostantivo, cioè: l’origine.

La mia decisione è stata rafforzata da una vicenda. A novembre del 2010 la Provincia di Fermo e quella di Rieti si sono date appuntamento a Santa Vittoria in Matenano per un convegno…farfense, da cui sarebbe scaturito un gemellaggio turistico sempre all’insegna dell’aggettivo. Tra i relatori (studiosi validi: Laudadio, Rossi, Verducci, ecc. ) mi sarei aspettato di vedere anche il Priore di Farfa o un altro monaco dell’Ordine. Se i Farfensi sono scomparsi da Santa Vittoria in Matenano, sono ben presenti nella casa madre, nel loro monastero reatino facente parte della Congregazione cassinese. Esistono, operano, sono attivi, non rappresentano un mero ricordo, non sono una leggenda.

Il Priore non sedeva tra gli invitati. Forse per una svista (comunque clamorosa!) negli inviti, forse perché gli organizzatori ignorano l’esistenza attuale dei Farfensi, forse perché gli aggettivi sono meno impegnativi dei sostantivi. Di fatto, al convegno, nessuna presenza farfense viva, solo una memoria storica e artistico-architettonica. Una festa senza il festeggiato, insomma. Oppure, in modo più prosaico, un voler far i conti senza l’oste. Scegliete voi il detto che più s’addice.

Fatta notare più volte la cosa alla Provincia di Fermo, nulla è poi accaduto.

Ecco allora rafforzato il mio progetto di andare alla sorgente, al sostantivo: raggiungere Farfa, conoscere i monaci, condividere un poco la loro vita, passare nella clausura del monastero qualche tempo, consultare libri e studiare un itinerario, riaprire un percorso a piedi verso le Marche. Rendere di nuovo presente quel soggetto.

L’idea s’è concretizzata nel periodo delle ferie.

Giovedì 11 agosto 2011, dopo una serie di mail e lettere di presentazione al Priore di Farfa, ho preso l’auto, percorso la Salaria, superato Rieti, tagliato per Cannetto, serie di curve e tornanti, ed ecco la meta. Farfa è un borgo rettangolare, un tempo chiuso da una cinta muraria, oggi ancora con due porte d’accesso e il monastero a far da lato lungo, con alcune file di case (ed anche di botteghe d’arte e di prodotti agroalimentari) in parallelo. Intorno, il verde dei boschi e quello della campagna coltivata ad ulivi, vigne, grano.

Nel sito molto ben curato dell’Abbazia si legge: Nel cuore dell'antica terra Sabina, ai piedi del monte Acuziano, in un'atmosfera di mistico silenzio, che avvolge anche il caratteristico Borgo che la circonda, sorge la storica abbazia di Farfa, immersa nel fascino di una natura verdeggiante e sorridente, nella fresca aria mattutina che si respira intorno, riscaldata da un dolce sole i cui raggi oltrepassano i rami degli alberi, prima di giungervi.

L'abbazia di Farfa è un luogo particolarmente attraente, ricolmo di pace, di serenità, di semplicità, come sono semplici i monaci benedettini che vivono, in un clima di profonda spiritualità, la loro vita quotidiana tutta dedita al Signore e alla Madonna, alla quale essa è dedicata. Fu dichiarata monumento nazionale nel 1928, per la bellezza architettonica ed artistica del monastero e della basilica, testimonianza di una storia più che millenaria tra periodi di grande splendore e periodi di decadenza o addirittura di distruzioni e dispersioni, seguiti sempre da rinascite e ricostruzioni, sì che ancor oggi l'abbazia è un centro di cultura e di spiritualità. Straordinaria anche la fioritura della santità, dal primo al secondo fondatore, rispettivamente S. Lorenzo Siro e S. Tommaso da Moriana, fino ai Beati Placido Riccardi e Ildefonso Schuster. Tante le visite di re, imperatori e papi fino a quella di Giovanni Paolo II il 19 marzo 1993. Migliaia i visitatori che oggi la frequentano per ammirare il patrimonio di cultura e d’arte che essa custodisce e rende accessibile e per il desiderio di trascorrere qualche ora o qualche giorno di riposo fisico e spirituale, usufruendo anche delle strutture d’accoglienza e di ristoro, nonché del parco e delle passeggiate nella proprietà della Fondazione Filippo Cremonesi, che comprende pure le caratteristiche abitazioni del Borgo di Farfa con le graziose botteghe gestite da abili artigiani.

Non una parola è fuori posto.

Il primo ad accogliermi è il Padre Priore, Eugenio Gargiulo. È alto, prestante, sulla sessantina, capelli bianchi, accogliente, autorevole. Più tardi scoprirò che ha una voce baritonale invidiabile. Mi affida a padre Santo, siciliano di Catania, sorridente, amante di musica, tarchiato, è anche parroco in una chiesa nei pressi. Sarà lui il mio riferimento: mi fa parcheggiare l’auto in uno spazio verde interno al monastero pieno di gatti e d’animali da cortile, mi istruisce sugli orari, sulla mensa, mi conduce nella cella che mi è stata riservata, si preoccupa che abbia una bottiglia d’acqua sul comodino. Ripenso a Leo Moulin, lo storico belga, ai suoi bellissimi libri sul monachesimo benedettino. Scriveva: “Il padre ospitalario (hospitalarius), fratello la cui anima è posseduta dal timore di Dio, è incaricato di accogliere gli ospiti di passaggio. A lui è raccomandato di riceverli tamquam Christus, come se essi fossero Cristo in persona, specialmente i fratelli nella fede e i pellegrini”. Guardo padre Santo e mi tornano in mente le parole di Moulin che conobbi personalmente anni fa al Meeting di Rimini, cui feci da autista-accompagnatore-amico in alcuni viaggi per conferenze nelle Marche.

Alle 12:00 entro nella mia cella: un letto, un comodino, una scrivania, un armadio, nulla di più. La finestra guarda un giardino e una porzione del monte Acuzio. Mi arriva un canto. Sono le dirimpettaie suore di santa Brigida (Brigidine). Hanno una loro casa a Farfa e una foresteria.

Sul comodino appoggio “La vita di san Benedetto e la Regola”. Voglio rileggermela nel silenzio e nella tranquillità. A scrivere il libro fu Gregorio Magno, monaco, Papa, innamorato di san Benedetto da Norcia.

Ore 12:45. Suona la campana, chiama a Sesta (la preghiera monastica è intensa e ben scandita), avverte che fra quindici minuti (“meglio cinque minuti prima”, mi ha avvertito padre Santo) ci si recherà in chiesa, nel Coro. Scendo lo scalone i cui gradini e le cui mura di sinistra sono antichi di sei secoli almeno. In tasca ho la chiave della camera e la “Comunella” (“che apre tutte le porte per accedere alla zona di Clausura”). Sono uno di loro.

Nel Coro c’è padre Mario, più che ottantenne, occhi azzurri vivissimi, una figura bella, “un grande monaco, esemplare per la preghiera, la povertà, l’ubbidienza”, mi dirà più tardi il Padre Priore.

Hanno l’abito nero i miei monaci. Accettarono la riforma di Cluny. Pregano in retto tono, cantano in gregoriano. Nel mezzo del coro, sovrastato da un braccio che un tempo, quando l’energia elettrica era di là da venire, reggeva una lanterna, è posizionato un leggio con un libro di musica (a quattro righi) con note molto grandi da poter essere lette da lontano. E’ qui che scopro la voce potente del Priore. La preghiera è all’unisono, i cori si alternano. Come un corpo solo, come un’anima sola. C’è padre Mario, dicevo, e c’è il Priore Eugenio, da una parte; ci sono io su una panca, davanti agli scranni, e ci sono – la formazione rimarrà immutata – padre Agostino (dalla barba fluente), che è vice priore, padre Santo (il mio angelo custode), padre Enrico (che ha problemi ad una gamba per una recente operazione), manca padre Massimo, che sta tornando dallo Sri Lanka dove Farfa aprirà una casa.

Ore 13:15 si va in refettorio. Che succede ora? Rapido, sfoglio mentalmente un altro libro di Moulin: “La vita quotidiana secondo san Benedetto”. Ma non occorre ripassare quel testo. La Regola è presente e viva, ieri come oggi. Prima del pasto, frugale ma non povero, il Priore benedice la mensa. Siamo tutti in piedi dinanzi al piatto, immobili, neppure il tovagliolo viene spostato. Quindi, ci si siede in silenzio, si mangia in silenzio, il capo chino, lo sguardo sul cibo dinanzi a sé. Il lettore intanto propone alcune letture o passi della Regola e una storia scritta da sant’Anselmo. Un monaco porta le vivande, nessuno ha da chiedere, perché il cibo arriva sempre al momento giusto.

Mi adeguo e penso. «Ogni giorno al prandium (il pranzo degli italiani), – scriveva Moulin – i monaci di Cluny ricevevano due piatti». Ancora oggi è così. C’è un non so che di garbato in questa tavola silenziosa, ci sono belle maniere. «Per il monaco, difatti, – è sempre lo scrittore belga a farmi da sottofondo – mangiare non è solo nutrirsi… Egli spezza il suo pane decenter, mangia honeste, et religiose, in silenzio, senza osservare ciò che mangiano i vicini… Finito il pasto si raccolgono con cura le posate e si depongono nel proprio piatto. Si restituisce il bicchiere usato, si copre il pane restante con una tovaglia, ecc.». E’ così, proprio così, ancora oggi, 1600 anni dopo san Benedetto e la sua Regola.

Prima di lasciare la tavola, il Priore eleva la preghiera di ringraziamento. E si va in ricreazione. Una mezz’ora circa insieme in una stanza piena di luce, di riviste (il quotidiano L’Osservatore Romano la fa da leone), c’è una tv ma non la vedrò mai accesa. Si scherza, si fanno battute, ci si racconta. Quindi, è tempo di ritirarsi in camera. Per un meritato riposo: i monaci si alzano alle 5,25, anch’io seguirò il loro ritmo.

Non riesco a prender sonno. Ho con me una serie d’articoli ritagliati dal Corriere della Sera. A Londra e in altri centri dell’Inghilterra ci sono stati violentissimi disordini. Fanno pensare a quelli d’alcuni anni fa nelle banlieue parigine dove gli immigrati hanno messo a ferro e fuoco i sobborghi. Lì c’era il problema della fame e dell’emarginazione o della non integrazione. In Gran Bretagna è diverso. Molto più preoccupante.

Avverto lo stridore tra la tranquillità di Farfa, il sole, la brezza, gli uccelli, la vita monastica, e le bottiglie molotov, gli incendi, gli assalti ai centri commerciali e ai negozi di hi fi.

Luigi Amicone sul settimanale Tempi ha riportato una frase terribile. L’ha letta sulla maglietta di un giovane salito su un vagone della metrò milanese. Dice: Destroy everything for a better tomorrow, distruggi ogni cosa per un domani migliore.

Frase terribile, appunto. Che funge da sfondo alle rivolte.

«Queste – ha scritto il sociologo ebreo-polacco Zygmunt Bauman – non sono rivolte del pane o della fame. Queste sono rivolte di consumatori deprivati ed esclusi dal mercato».  Dove il mercato è la nuova cattedrale; dove «i negozi e lo shopping acquisiscono pertanto una vera e piena dimensione escatologica…»; dove «la lista della spesa è diventata il nostro breviario, le processioni nei centri commerciali i nostri pellegrinaggi…»; dove «la pienezza della gioia del consumo equivale alla pienezza della vita».

Non un’analisi, ma una fotografia terrificante. Immagini di dissoluzione, di disintegrazione, di fuoco e ferro. Nessuna novità. Ci furono altri momenti di fuoco e di ferro. Ma anche di ardore, di passione, di costruzione, anzi, di ricostruzione.

Mi soccorre un articolo del mio amico Luca Doninelli. Lo ha pubblicato il 10 agosto su ilsussidiario.net

Si chiede, Doninelli, se Londra sia solo teppismo? Coglie un male profondo nella nostra società, tra i giovani in specie. «Spesso un male irreversibile si forma, dentro un corpo, per la somma di tanti piccoli mali, ciascuno dei quali di per sé sarebbe curabile, ma che, messi insieme, producono degenerazioni, stati cronici, collassi strutturali. Questo vale per il corpo umano, per il corpo di un paese e anche per un’intera civiltà».

La nostra civiltà che, abbandonate le radici cristiane, finita in mano ad un «centralismo della civiltà dei consumi» (Pier Paolo Pasolini), ha ridotto l’uomo a puro e bestiale consumatore, ora si sta disintegrando. Cade l’Impero Occidentale. L’homo economicus non regge più.

Ma quanto c’entra tutto questo con la mia cella, il mio san Benedetto, la mia voglia di tornare alle origini?

«Alla fine dell’Impero Romano, – scrive ancora Doninelli – la civiltà fu salvata (e rinnovata alla radice) dal Monachesimo. E’ in questo che dobbiamo credere: anche se le forme ci sono ancora ignote. Per il momento è bene ricordare che non tutti quei ragazzi che spaccano vetrine sono cattivi ragazzi, e che magari tra loro si nasconde un santo di domani».

La questione non è rinchiudersi in monastero per fuggire il mondo. Ma quanto mai è stato così, poi! La questione è cogliere ciò che i monasteri benedettini furono all’indomani del crollo di Roma: luoghi di preghiera e luoghi di ospitalità, di integrazione, di sviluppo agricolo, di invenzioni, di nuove arti. Il Franco con il Longobardo, il Goto con il Vandalo e il Romano. Il tutto a partire da quell’Ora et Labora. «Il monastero era dunque ipotizzato, da Cassiano, a Salviano, a Benedetto, come la cellula cristiana in grado di illuminare la società istituzionale dei fedeli, di darle un senso nel progetto complessivo della Salvezza. Non si tratta, dunque nei testi monastici delle origini, – scriveva Todeschini – di proporre ai laici un modello di ripudio dei beni del mondo, ma piuttosto di realizzare praticamente e quotidianamente, all’interno del monastero, ‘città ideale’ fuori della città, un insieme di comportamenti di cui i laici potranno fruire».

Ha scritto il teologo e filosofo Alasdair MacIntyre (comunitarista): «Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro san Benedetto».

Ore 15:45. Si recita Nona. Si torna in Coro. Si prega insieme. Ci sono turisti nella stupenda chiesa del monastero piena di affreschi. Non rompono il silenzio, si adeguano alla situazione, capiscono il luogo, lo rispettano.

Alle 16:00 è tempo di lavoro o di studio. Il Padre Priore mi invita a colloquio, appuntamento per le 18:30.

Sulla mia scrivania, accanto alla minuscola lampada rossa dalla luce fioca, si sono due volumi che padre Eugenio mi ha consegnato. Una ristampa anastatica del fondamentale studio L’imperiale abbazia di Farfa dell’indimenticabile cardinale Ildefonso Schuster, monaco benedettino della Congregazione Cassinese, arcivescovo di Milano negli anni della guerra civile 43-45; e il volume, importantissimo ma semi sconosciuto, degli Atti del convegno promosso nel 2003 dal Centro Studi Farfensi. Un pozzo di notizie.

Alle 18:30 sono dal Padre Priore. È lui che inizia, lui che racconta della storia di Farfa e del suo monachesimo. Lui che tradisce stupore venendo a sapere che a Santa Vittoria in Matenano, dove si rifugiarono i suoi predecessori, ancora ricordano i farfensi… ma come aggettivo. Mi chiede se i libri fornitimi stanno dando risultati.

Certo che sì. Ma perché Farfa? Perché i monaci, perché la clausura?

Gli racconto del convegno, degli aggettivi, del rischio di un ricordo solo museale, o forse della necessità di inventare un brand d’effetto, un marchio d’origine suggestivo e capace di attrarre attenzione.

Capisce però che non è solo questo. Ed in effetti non è solo questo… Gli dico di me, allora. Di quel distacco, adolescente dalla Chiesa cattolica, «i preti mi parlavano di Africa, di povertà e di lebbra, che a me faceva pure un po’ schifo. Io invece avevo bisogno di altro, sperimentavo i primi innamoramenti, sentivo le pulsioni erotiche, mi tuffavo nella politica, volevo la …luna». Eppoi, gli ho raccontato delle coincidenze non casuali con san Benedetto e i suoi. Come ai tempi della scuola. Al liceo classico Annibal Caro di Fermo mi chiesero un articolo. Pensavano a qualcosa di politico, scrissi invece del monachesimo benedettino. E non so perché. Come al Meeting di Rimini. Avevo rintracciato la strada della fede grazie ad un vecchio amico, don Alfredo Abbondi (oggi monsignor Abbondi). Mi portò a Rimini. Ascoltai il teologo francese ortodosso Olivier Clement. Mi colpì una sua frase, grosso modo questa: dinanzi ad un mondo in dissoluzione (1983!!!) occorre far vivere luoghi di resistenza spirituale e accoglienza. Come nei monasteri del Medio Evo. Come fecero i benedettini. Di nuovo loro, di nuovo lui, il Santo di Norcia. Il Priore mi guarda, sorride, dice di sì con la testa.

Ci rivediamo in Coro alle 19:30 per celebrare i Vespri.

La cena è fissata alle 20:00, sempre con letture, e c’è pure il dolce.

Alle 21:00 Compieta: «O Dio, vieni a salvarmi. Signore viene presto in mio aiuto…».

Quindici minuti circa, eppoi a letto, o alla scrivania. Silenzio nei corridoi, silenzio nella stanza, c’è ancora un bagliore di sole che si sta smorzando. Serenità. Se penso al mio lavoro e alla battaglia quotidiana con notizie, fonti, telefonate, internet, skype, conferenze stampa…

I monaci benedettini, rifletto, che siano cluaniacensi, cistercensi, o trappisti, non hanno un progetto se non la propria elevazione al Signore. E se ne stanno lì dove sono chiamati. E lì, a contatto con la realtà dei luoghi, rispondono come possono.

«Voi siete il ramo dove si posano gli uccelli», dirà, nel film Uomini di Dio, un capo mussulmano (siamo in Algeria) al priore trappista che gli ha rivelato le proprie preoccupazioni, le proprie paure, le ansie della comunità cattolica.

Perché sono lì i trappisti? Perché sono qui i farfensi? Per un amore più grande (come dirà ancora nella pellicola l’anziano monaco medico padre Luc rispondendo alla domanda di una ragazzina islamica), sicuramente, per un’attrattiva più grande. Per un sacrificio che è la chiave di volta.

Venerdì 12 agosto, ore 5.25. Suona la campana. Si ricomincia. E’ ancora buio. Il Monte Acuzio sovrasta il borgo e il monastero. Timidi sprazzi di luce tra il verde del bosco. Il canto del gallo, i primi uccelli, qualche cane lontano che abbaia.

Mi tornano in mente le Trappiste di Vitorchiano. Staranno già cantando  «Nel primo chiarore del giorno, vestite di luce e silenzio, le cose riemergon dal buio, com’era al principio del mondo…».

In quindici minuti sono pronto, anche con il volto rasato. La Regola aiuta l’organizzazione. Esco dalla mia cella, il corridoio è ampio e fresco. Molto fresco. D’inverno sarà dura. Nevica poco, mi informerà padre Santo, ma il freddo è intenso.

L’Ufficio delle Letture viene svolto nel Coro piccolo, sullo stesso piano delle camere. La formazione dei monaci resta la stessa. Appena a destra dell’ingresso il Priore, appena a sinistra il vice. Dopo le letture, alle 7 le Lodi eppoi la santa Messa. Alle otto è prevista la Lectio divina, alle 8,50 tocca invece a Terza e preci. La preghiera come domanda incessante. Eppoi, il lavoro. Ognuno ha il suo compito. Io finisco di consultare i volumi quindi esco per il Borgo. C’è gente in visita, parlano piano, come per non disturbare l’ambiente. Mi siedo nel parco voluto dalla Fondazione. Ci sono alcune signore anziane che discutono di carità.

Torno per le 13, per Sesta. E così via di seguito.

Il Priore desidera incontrarmi di nuovo. Io gli chiedo di farmi vedere la biblioteca realizzata in una torre a sinistra della facciata della chiesa, e di poter entrare nel giardino. Sarò soddisfatto. Ricchissima è la biblioteca, e all’avanguardia. Numerosi i volumi, specie quelli antichi. Luogo affascinante ma niente a che vedere con le suggestioni tenebrose de Il Nome della Rosa.

Alcuni volontari hanno compiuto le archiviazioni anche con le scansioni digitali. E’ luogo di studio e di ricerca.

Il giardino – meglio: i giardini – ha qualcosa di notevole. Uso le parole di un giovane farmacista, Vincenzo Mazziotta, che lo ha in cura. «La visita ai giardini claustrali e all’orto dei semplici dell’abbazia di Farfa offre occasione per intraprendere non solo l’incontro con il sorprendente mondo delle piante, ma pure un viaggio profondamente spirituale: una sorta di cammino-pellegrinaggio che si presta a molteplici interpretazioni». L’itinerario è quello che attraversa il cortile degli scavi archeologici, introduce nel Locus Amoenus, con fiori di ogni tonalità e profumi diversi: dalla rosa (che rappresenta la Madonna) ai gigli, alle viole. C’è poi il doppio filare della vite. Da cui si trae il vino necessario per la celebrazione eucaristica. Ed ancora l’orto dei monaci, Hortus holeororum, dove si coltivano verdure e ortaggi per la mensa del monastero. Arrivano profumi diversi. Qui tutto è ordinato e bello. «La bellezza – scriveva Solovev – è necessaria alla piena realizzazione del bene nel mondo, perché solo essa illumina e doma la tenebra malvagia sul nostro mondo».

Tra qualche tempo la passeggiata sarà aperta a tutti i visitatori. Il Priore parla delle vicende antiche e moderne di Farfa, parla della Regola, accenna ad uno sviluppo dell’agricoltura: il monastero ha diversi ettari piantati ad ulivo e vite. Prevedibile una futura commercializzazione.

Si fa sera. I monaci, cui s’è unito anche padre Massimo tornato dallo Sri Lanka, hanno ricevuto un invito. Mangerò da solo e sarò padrone dell’intero monastero.

Dopo cena, passeggio a lungo nel grande chiostro rinascimentale. Sul prato, al centro, una grande statua di San Benedetto. Sopra di me un quadrato di cielo che sta imbrunendo rapidamente. Sento i miei passi echeggiare, e null’altro. Non squilla il telefono, non strombazzano le auto, non arrivano messaggini, non c’è facebook e neppure twitter. C’è altro, ben altro. S’affacciano in testa parole di cui non ricordo l’autore: «La bellezza – ma non l’estetismo – ha in sé qualcosa che somiglia ad una promessa. Non finisce in sé e per sé».

Quanta storia in questi luoghi. Soprattutto, quanta fede e quante opere.

E’ tempo di Compieta, che reciterò da solo scorrendo il mio Libro delle Ore.

Ore 21:15, torno in camera. C’è la valigia da preparare, gli ultimi appunti da prendere, un libro I tre frati ribelli. San Roberto il ribelle-Sant’Alberico il radicale-Santo Stefano Harding il razionalista. Fondatori dei monaci bianchi: cistercensi e trappisti da gustare.

Ore 5,25 di venerdì 13 agosto. «L’aurora risplende di luce, il cielo si veste di canti, la terra inneggia gioiosa a Cristo risorto da morte». E’ ancora un canto delle Trappiste. Tra un po’ ascolterò quello dei farfensi. Arrivo puntuale nel piccolo Coro. Preghiamo insieme ancora una volta. Poi, al termine, mi si fanno tutti intorno. Mi salutano, affettuosi, con un abbraccio. Il Priore mi ringrazia – lui, che ringrazia me! – e mi dà appuntamento a quando vorrò tornare.

Gli ho consegnato una lettera, per lui e la comunità che guida.

«Il tempo non è stato molto. Sufficiente però per riflettere, guardare, cogliere alcuni aspetti. Riflettere sul significato della preghiera, dell’ordine, del silenzio; guardare l’attenzione al particolare, l’accoglienza calorosa eppure discreta nei confronti del ‘pellegrino’; cogliere che tutto ciò ha una radice, una sorgente, un’origine. E’ filigrana divina, che il Padre Benedetto ha reso filigrana umana. Farfa respira tutto questo, la vostra Comunità monastica rappresenta tutto ciò. Siete un tesoro prezioso, un avamposto e riverbero di Paradiso, siete testimoni del Vangelo, la vostra vita dimostra che una vita nuova è possibile, che anche nella Babele odierna, anzi: più oggi che ieri, noi, società sempre più liquida e in liquidazione, abbiamo urgenza – i giovani in specie – d’attracchi robusti, che ci sono, perché voi ci siete! Grazie».

Padre Santo mi accompagna sino all’auto, apre il cancello, mi abbraccia e mi saluta con un arrivederci. A Farfa o forse a Santa Vittoria in Matenano. Perché il soggetto è stato ritrovato.

Ed il cammino anche…